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IL MIO AMICO ERIC
(LOOKING FOR ERIC)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 3 dicembre 2009
 
di Ken Loach, con Eric Cantona, Steve Evets, Stephanie Bishop, John Hansahaw (Gran Bretagna, 2009)
 
Quelli di Ken Loach sono dei film che ti fanno sentire bene, migliore, quando esci dalla sala. La sua arte (a prescindere da quella che ne ha fatto il cineasta dell'osservazione sociale per eccellenza) consiste nel giungere a quel risultato grazie alla misura poetica di una sensibilità che non scade mai nella rabbia; sempre, nella grazia di un'osservazione civile anche se spesso divertita del proprio prossimo. Mai nell'uso di un buonismo consolatorio. Al contrario, l'inglese ormai settantenne non è qualcuno che liscia lo spettatore nel senso del pelo: le sue storie rimangono sempre vere e intransigenti, sempre ricondotte a quella visione, commovente ed efficace anche politicamente, dell''individuo di buona volontà che, per quanti sforzi compia, finisce immancabilmente per ritrovarsi ai piedi del muro eretto dal sistema sociale nel quale vive. LOOKING FOR ERIC non è all'altezza dei film più grandi di Loach, di SWEET SIXTEEN, LADYBIRD o PIOVONO PIETRE. Ma, mirabilmente, riesce a non transigere alle proprie regole: pure in un film dalle apparenze distensive, che non avrebbe potuto rappresentare altro che la dimostrazione di sapere affrontare toni inediti, dichiaratamente comici, all'interno di un universo anche futile come quello calcistico.

E' infatti il celebre calciatore Eric Cantona che ha voluto il film, oltre che costituirne una più che valida presenza. Assieme a quella del suo alter-ego, il quarantenne postino di Manchester in crisi, serve a Loach per costruire il rapporto estremamente originale sul quale il film si significa. Senza una moglie che lo ha lasciato da tempo, con due balordi in casa che non sono nemmeno suoi figli e si trascinano spinellando dal letto alla tivù, dovrà accantonare la depressione per cavarli da guai sempre più grossi. Il buon Eric non ha che una fede alla quale affidarsi: l'amore per il football, per la maglia scarlatta del Manchester. Ed ecco allora (in una sterzata deliziosamente romantica, che mai il cinema di Ken Loach avrebbe lasciato prevedere) apparirgli un fantasma, alla saggezza ed all'energia del quale affidarsi. Eric, l'idolo di sempre, tutto quanto il postino non è più da tempo, un duro, un decisionista; qualcuno che nella sua (vera) vita si era reso celebre non solo per le reti segnate, ma per aforismi del genere: “a colui che non lancia i dadi mai riuscirà un doppio sei”, oppure “quando i gabbiani seguono il peschereccio è sempre perché pensano che delle sardine saranno gettate a mare”.

Nel cinema anche più drammatico di Loach, nei suoi personaggi catturati dalla vita nei pub, nelle fabbriche o per le strade c'è sempre stata la componente umoristica di una umanità colta con impareggiabile semplicità e verità. Mai però con questi procedimenti, che appartenevano alla tradizione della commedia più leggera. Non che le preoccupazioni dell'osservazione sociale siano cancellate da una farsa: rimangono sullo sfondo, pronte ad irrompere, nel realismo di uno sguardo e di una drammaturgia che non perde mai di vista i bisogni irrinunciabili dell'individuo. E, in un finale altrettanto insolito (la rivolta dei lavoratori nei confronti della mafia che terrorizza pure quelle province) il grottesco sentimentale della vicenda e la vicinanza sempre infinitamente tenera del regista con la condizione popolare si esprimono in un'ultima, gratificante intuizione.


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